Nell'ultimo incontro ho chiesto ai dottorandi di scrivere sul medium più immediato che avevano a portata di mano (Whatsapp) un breve testo sulle loro personali idee "sulla macchina". Queste le risposte:
Il mio rapporto con la macchina è ambivalente, quando funziona bene sono lieto di farne uso, ma quando ha delle problematiche che ne impediscono l'utilizzo diventa fonte di grande rabbia, perché anche se individualmente ne potremmo fare a mano per studiare/lavorare, non se ne può fare a meno a livello sistemico.
Vedo sempre la macchina come uno strumento per raggiungere un fine. La macchina è "X che, se lo utilizzo o se riesco a utilizzarlo, ottengo Y".
Il mio rapporto con la macchina è innanzitutto di sospetto e sfiducia, e penso che questo sia dovuto soprattutto alla mia formazione tecnica, a volte è come se mi aspettassi il fallimento della macchina a priori, ma anche di profondo interesse per l'aspetto materiale e per la storia che le macchine evocano.
Il mio rapporto con la “macchina” è piuttosto contraddittorio. La macchina aumenta l’efficienza dei processi ma può al contempo alienarci, sostituendo gesti e decisioni umane con automatismi meccanici. Delegando sempre più alle tecnologie, rischiamo di perdere contatto con la dimensione individuale e spontanea. Ridotti a dati e utenti, viviamo esperienze sempre più anonime e meccaniche, annichilendo le nostre azioni.
Quando la macchina è di semplice funzionamento, come si potrebbe dire di meccanismi artificiali che sfruttano l’energia umana, fatta di leve e forze di facile descrizione, essa mi è comprensibile ed amica. Posso persino romanticizzare il macinino, la bicicletta, il carillon, il pianoforte, tutti oggetti non elettrici o elettronici, li riconosco come un compendio umano alla vita, che la rispetta nelle sue misure: un gusto arcaico. Quando la macchina ci supera di molto, e la mongolfiera è superata dal jet, mi spavento. Infatti non ho la patente, non amo il computer, non mi intendo di Arduino. Quando la macchina è futuristica e potentissima essa mi affascina come la luce elettrica deve aver sconvolto l’uomo ottocentesco. Mi piacciono a questo punto le dissertazioni filosofiche alla Asimov o alla F. K. Dick, ma l’importante per me è che non si realizzino mai.
La macchina mi allontana eppure dovrebbe avvicinarmi alle persone, ai luoghi, alle intenzioni. La macchina mi circonda e un po’ mi assorbe, e io ne sono consapevole, e per quanto io cerca di farne a meno non riesco, non posso. La macchina non mi fa scrivere a matita i bigliettini, e non dice quando tremo, quando piango, quando premo perché sorrido o perché sono arrabbiata. La macchina mi rende invisibile, sovrasta le mie emozioni, le processa e poi le annulla.
La macchina a volte risolve, ma forse senza di lei non esisterebbe neanche il problema.
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